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"È fondamentale che la campagna Stop TTIP, di cui il Movimento fa parte - afferma Alessandro Mostaccio, segretario generale MC - abbia aderito allo sciopero per il clima del 29 novembre. Riteniamo infatti, anche se la campagna si occupa di contrastare i trattati bilaterali di liberalizzazione dei commerci e degli investimenti, che sarebbe vano ottenere un green new deal senza mettere parallelamente 'mano' all’attuale impostazione del commercio mondiale, basata esclusivamente sulla massimizzazione del profitto a scapito di ambiente e giustizia sociale".
Il quarto sciopero globale per il clima indetto da Fridays For Future rilancia la pressione sulle istituzioni: serve una opposizione definitiva ai trattati di libero scambio, a partire dal CETA e dall’accordo UE-Mercosur. Il primo va bocciato subito da un voto del Parlamento italiano, il secondo va respinto dal Consiglio e dal Parlamento Europeo. Dev’essere chiaro che non può esistere alcun green new deal senza una chiara inversione di rotta rispetto a un’agenda commerciale nazionale e comunitaria incompatibile con il clima, l’ambiente e il lavoro.
È importante alzare la voce per smentire le false narrazioni sulla bontà intrinseca della globalizzazione commerciale, favole già smascherate dalle proteste dei giovani di tutto il mondo, preoccupati per il loro futuro su un pianeta sempre più caldo e diseguale. Non è un caso che Fridays For Future abbia da subito manifestato contro i trattati di libero scambio, per la loro evidente inconciliabilità con un approccio democratico e di giustizia ambientale.
Questa richiesta di cambiamento non può più essere ignorata. È una voce che divampa dalle braci di un’altra grande mobilitazione: proprio il 29 novembre di venti anni fa – era il 1999 – una immensa folla di attivisti e cittadini venuti da ogni parte del mondo si riversava per le strade di una città, Seattle, dove l’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) teneva un vertice cruciale dal quale sarebbero dovute scaturire le linee guida per una nuova stagione di scambi commerciali. In due giorni i dimostranti riuscirono a bloccare l’accesso al Convention Center, impedendo l’ingresso dei negoziatori. Sapevano che sul tavolo delle trattative sarebbero finite le teste dei contadini, delle imprese di piccola e media dimensione, dei lavoratori subordinati nei paesi del sud del mondo e poi anche di quelli del più ricco nord. Tutto in nome di un aumento del commercio globale, visto come cura – insieme al disciplinamento imposto da altre grandi organizzazioni come il Fondo monetario internazionale – per tutti i mali economici e sociali.
Il negoziato fallì e fu un durissimo colpo per l’Organizzazione mondiale del commercio. Un colpo dal quale non si è ancora rialzata. Eppure, nonostante il chiaro messaggio che proveniva da quel movimento globale composto da ambientalisti, sindacati, contadini, professionisti ed esperti, attivisti per la giustizia sociale e i beni comuni, le classi dirigenti hanno deciso di andare avanti. Serviva un nuovo strumento per aggirare il multilateralismo su cui era imperniata la WTO ed evitare i crescenti malumori – e conseguenti voti contrari – dei paesi del Sud del mondo. Così siamo entrati nell’era dei trattati bilaterali di libero scambio: negoziati faccia a faccia fra due paesi, che mettono sul piatto qualunque cosa: non soltanto i dazi, ma tutte le norme considerate di ostacolo agli scambi commerciali. Le regole di precauzione su pesticidi, sicurezza alimentare, manipolazione genetica, speculazione finanziaria o servizi pubblici sono diventate il vero bersaglio degli uomini grigi. Che hanno cominciato a lavorare nell’ombra, secretando temi e documenti delle loro trattative, così da non permettere alla società civile di turbarne il buon esito.
Questa “globalizzazione carbonara” prosegue, anche se con evidenti difficoltà. I trattati di libero scambio sono fra i temi più controversi e detestati in almeno quattro continenti. I governi di Europa, Africa, Nord e Sud America sono alle prese con costanti proteste pubbliche di fronte ai tentativi di portare avanti negoziati potenzialmente distruttivi per i sistemi democratici, le piccole economie, l’ambiente e l’occupazione. È accaduto per il TTIP, il trattato transatlantico che avrebbe mescolato con sapiente premeditazione il lato peggiore dell’Unione europea e degli Stati Uniti, e che continua a procedere alla chetichella nel peggiore dei modi. Le troppe contestazioni hanno fermato il negoziato per due anni, mentre è proseguito quello sul CETA, un abbraccio mortifero fra Europa e Canada che – se ratificato dai Parlamenti nazionali – stritolerà interi settori economici e le fasce sociali più deboli.
Non solo: il vecchio continente, sotto la guida di una Commissione europea che ha fatto del liberismo sfrenato la propria bandiera, ha moltiplicato i tavoli di trattativa con una pletora di altri paesi, fra cui Singapore, Vietnam e Giappone: tutti accordi che prevedono ulteriori attività impattanti sugli ecosistemi e le economie territoriali, peggiorando la qualità della vita delle persone.
L’ultimo macigno è la conclusione dell’accordo con il Mercosur, il blocco di paesi composto da Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay. Dopo vent’anni di stallo, tutto si è sbloccato con l’arrivo del bieco Jair Bolsonaro alla presidenza del Brasile. Un’Europa minimamente degna non avrebbe dovuto scendere a patti con un paese preda dell’autoritarismo, che ha stracciato le leggi a tutela della foresta amazzonica e dei popoli indigeni, seminato odio e violenza e arresta i difensori dell’ambiente. Invece il trattato è stato concluso ugualmente, e ora attende la ratifica del Parlamento europeo e poi dei Parlamenti degli Stati membri. Se accadrà, sarà uno schiaffo ad ogni impegno contro il cambiamento climatico: i roghi in Amazzonia che questa estate hanno fatto il giro dei media mondiali sono l’esempio di come si organizza un aumento delle esportazioni di carne e soia a fronte della crescente richiesta europea e cinese. Per dare il segno dell’effetto climatico di questi patti stretti a porte chiuse, è utile citare qualche numero. Secondo Grain – organizzazione internazionale che si occupa di agricoltura e commercio – l’aumento degli scambi di alcuni prodotti agricoli (carne di manzo e di pollo, formaggi, latte, zucchero, riso ed etanolo) in seguito all’accordo UE-Mercosur provocherà 9 milioni di tonnellate di emissioni di gas serra all’anno. Il totale passerà dunque a 34,2 milioni di tonnellate, con un incremento del 30% rispetto allo scenario attuale, che vede il commercio fra i blocchi impattare sul clima per 25,5 Mton di CO2eq. Tutto ciò se circoscriviamo l’analisi al solo settore agricolo, ma le cifre cresceranno se pensiamo che il grande obiettivo europeo – e in particolar modo tedesco – con questo accordo è la crescita dell’export di automobili in America latina, per inondare un mercato meno saturo e meno vincolato dalle regole sull’inquinamento. Lo scambio vero è fra auto tedesche e prodotti dell’agricoltura industriale brasiliana e argentina. Un settore dominato da imprese di dimensioni ciclopiche, capaci di mettere in ginocchio l’agricoltura di interi paesi europei. Ne risentirà il clima, l’ecologia dei territori, la qualità dell’aria e anche la salute e la sicurezza dei consumatori, sempre più impoveriti e spinti a fare scelte economiche insane e insostenibili, con il risultato di peggiorare la propria salute per poi rivolgersi a un servizio sanitario sempre più costoso ed esclusivo.
Per questo ci vediamo nelle piazze d’Italia il 29 novembre insieme al movimento Fridays For Future, a difesa dell’ambiente e del nostro futuro.